Bisogna rilevare che l’uso del termine “depressione”, ai giorni nostri, viene applicato in maniera molto disinvolta a patologie assai diverse.
Per individuare l’ambito entro cui porci possiamo avvalerci della definizione proposta da Umberto Galimberti: “… detta anche melanconia, è un’alterazione del tono dell’umore verso forme di tristezza profonda con riduzione di autostima e bisogno di autopunizione. Quando l’intensità della depressione supera certi limiti o si presenta in circostanze che non la giustificano diventa di competenza psichiatrica, dove si distingue una depressione endogena che, come vuole l’aggettivo, nasce «dal di dentro» senza rinviare a cause esterne, e una depressione reattiva che è patologica solo quando la reazione ad avvenimenti luttuosi e tristi appare eccessiva” (Galimberti, 2005:288).
Nell’esistere, diverse volte, ci potrà capitare di incontrare una tristezza profonda, magari perché il compagno o la compagna ci ha lasciati; ma non tutti all’abbandono reagiscono allo stesso modo, e talvolta la medesima persona in occasioni differenti potrà reagire in maniera diversa. Che cosa deve accadere, allora, per far si che quella determinata cosa accaduta e/o vissuta possa determinare una depressione?
Spesso la pratica clinica ci presenta casi di soggetti che manifestano idee deliranti aventi per oggetto idee di rovina, di colpa, di incurabilità, le cui alterazione dell’umore presentano una deflessione verso una profonda tristezza. Che cosa è accaduto per cui ha avuto luogo una depressione?
Le domande poste alludono a un “qualcosa” che accade.
Karl Jasper sostiene che il nucleo della depressione pura è formato da una “immotivata e profonda tristezza, alla quale si aggiunge una inibizione di tutta l’attività psichica, che oltre ad essere sentita molto dolorosamente in senso soggettivo è anche constatabile oggettivamente” (Jaspers, 1913-1959: 641).
Sigmund Freud per argomentare la melanconia usa accostarla allo stato del lutto, per individuare quel “qualcosa” che accade; infatti, sostiene che “Nel lutto il mondo si è impoverito e svuotato, nella melanconia impoverito e svuotato è l’Io stesso”(Freud, 1915:105).
Ludwig Binswanger sostiene che “nella melanconia non si perviene a un umore mesto o alla mestizia, ma «all’impotenza emozionale e intenzionale» ” (Binswanger, 1960: 39).
Per Eugenio Borgna “Nella malinconia si sprofonda in questa angoscia interminabile che scende in noi (scende in me) con una lacerante corrosione emozionale alla quale non si può sfuggire” (Borgna, 2001:59).
Quel “qualcosa” che accade ha a che fare con l’immotivato, con l’impoverito, con l’impotenza, con l’inibizione e con l’interminabile, inoltre, con lo svuotare e con lo sprofondare in uno stato emozionale e intenzionale a tonalità negativa; a prescindere se riguarda una depressione endogena o psicogena o somatogena, queste cose accadono.
Lo stare all’ascolto del depresso permette di avvertire un grido sordo che fa eco alle profonde e vuote viscere del soggetto.
Sul perché della depressione abbiamo tante interpretazioni che spaziano dal punto di vista analitico, a quello cognitivo, a quello biologico e tanti altri, ma è solo nell’incontro con la depressione che ci può capitare di comprendere quanto accade.
A tutti può capitare di incontrare un depresso, e il senso comune vorrebbe a questo restituirgli un gesto di conforto, la cosiddetta «pacca sulla spalla», incitamento che “determina un deleterio depotenziamento delle loro risorse” (Di Piazza, 2008: 206), perché non permette al soggetto stesso di poter incontrare la profondità del proprio umano.
Gli autori citati hanno permesso di avvicinarci a quel “qualcosa” che accade nel depresso, mettendolo in mostra, adoperando, in taluni casi, termini come immotivato e impotenza, parole che si avvalgono di prefissi che richiamano all’assenza di “qualcosa”; in altri casi, come svuotare e sprofondare, parole che utilizzano prefissi che rafforzano e intensificano il termine stesso, oltre che rendere agenti gli autori stessi. La depressione per essere compresa è come se dovesse essere descritta adoperando parole composte, fatte di più cose, per lasciarsi intravedere come costituita di più parti unite insieme.
Da Kurt Schneider abbiamo appreso che “Una reazione ad una particolare esperienza (Erlebnisreaktion) è la risposta emotivo-affettiva congrua e motivata ad un avvenimento” (Schneider, 1967: 31), ma anche che le reazioni diventano abnormi quando dall’avvenimento “si discostano dalla media delle normali reazioni soprattutto per la loro insolita intensità, oppure anche per l’inadeguatezza rispetto al motivo o per l’abnormità della durata o dell’aspetto o per il comportamento abnorme” (ivi, p. 34). Anche se “È difficile dire se le reazioni all’avvenimento possono discostarsi dalla norma anche qualitativamente, come accade, almeno in parte, per le esperienze degli psicotici” (ivi, p.35).
L’intenzione di spostare l’attenzione sulle reazioni, soprattutto abnormi, quando accade “qualcosa” permette di poter meglio vedere come l’abnormità rimanda a “qualcosa” che si allontana da ciò che di solito è consueto, pur restando una replica a quel “qualcosa” che è accaduto. Infatti, perdere una persona cara determina inevitabilmente tristezza; talvolta, in maniera inconsueta, ciò che è accaduto dà il via ad un fenomeno depressivo. Inoltre, partorire un figlio pone la donna inevitabilmente a portare fuori quello che prima era dentro, nascosto nella propria intimità, attraversando un momento doloroso che alimenta la paura di non farcela; di tanto in tanto, in modo insolito, ciò che è avvenuto può innescare un fenomeno depressivo. Oltremodo, un soggetto che conduce una vita “normale”, le cui reazioni non destano allarme, a dire di quelli che lo circondano, nell’attimo in cui incontra un “qualcosa” che fa “terrore”, cioè, “Quando […] ciò che è minaccioso si presenta come orribile e nello stesso tempo ha il modo di presentarsi di ciò che è spaventoso” (Heidegger, 1927: 176), non essendo riconosciuto genera inevitabilmente sgomento; in alcuni casi, come insolita consuetudine, ciò che si è esperito avvia un fenomeno depressivo.
L’esistenza di qualche elemento alla base costituiva del soggetto che possa in determinati casi orientare verso lo strutturarsi di una depressione, rimanda a quel “Fondo” di cui parla Kurt Schneider; discorso che conduce l’autore ad individuare l’esistenza di una “depressione del Fondo” (Schneider, 1949: 247). “Sono proprio quelle depressioni – non legate a eventi precisi, ma neanche inserite in una processualità psicotica bipolare, depressioni vitali di difficile risoluzione col solo trattamento farmacologico, tendenti alla cronicità, oppure ad andamento ondulante, con parziali risoluzioni e frequenti ricadute, emergenti in storie di vita difficili, microtraumatiche o in conflittualità pulsionali apparentemente e talora effettivamente irrisolvibili – a far pensare al concetto schneideriano di «depressioni del Fondo» ” (Dalle Luche, 2011:261).
Trattare il tema della depressione richiede di porsi nel presso dell’umano per poter, alzando lo sguardo, lasciarsi accecare da quel “qualcosa” che si sta cercando di disvelare; ci si accorge dell’immensa sofferenza che governa un tale stato: “La sofferenza è una parte integrante dell’esistenza umana. […]. Proviene dal «pathos» umano e in essa l’uomo riconosce il proprio aspetto umano” (Minkowski, 1966: 507). Si è presso il “patico” quindi; “patico” che “segnala la straordinaria circostanza, in cui le emozioni occasionali si umanizzano, appartengono cioè all’«esistenza» ” (Masullo, 2003: 125).
In questa situazione di sofferenza il depresso si ritrova «de-presso»; trovandosi quindi senza prossimità del mondo di cui si prende cura, tende a manifestare tutti quei sintomi che ri-marcano l’assenza di “qualcosa” come l’insonnia, l’inappetenza, l’abulia; si dirige verso quelle manifestazioni che rafforzano e intensificano lo stare presso il “patico” come l’autoaccusa, l’autodisprezzo; si rivolge a quel desiderio di morte, di fine, che alimenta la tendenza al suicidio.
Sembra paradossale che la sofferenza proveniente dal “patico” possa determinare una condizione per cui il soggetto possa addirittura configurare uno status di malattia. A questo punto dobbiamo ri-fermarci sul “qualcosa” che accade.
È come se introducessimo in un palloncino gonfiabile più aria del dovuto, provocandone lo scoppio: è questo «di più» il “qualcosa” che si disvela dallo sfondo (talvolta dal “Fondo”) della depressione?
È come se l’umanizzarsi dei “qualcosa” che accadono producessero l’effetto contrario, come se fosse un reagente: è questo «operare in senso contrario» che si nasconde dietro la depressione?
È come se correndo su una pista, questa all’improvviso terminasse, finendo per farci bloccare: è questo «in-avere (inibire)» che si pone a tergo della depressione?
In alcuni casi può accadere che l’uomo che vive un lutto in un «di più» che proviene dallo sfondo (e alcune volte dal “Fondo”), nel cercare di intervenire con un «operare in senso contrario» per nascondere dietro, tenta con l’«in-avere [inibire]» di mettersi tutto alle spalle, incontrando la tristezza-tristezza.
Lo stesso vale in alcuni casi per la donna partoriente, che finisce per incontrare il dolore(paura) –dolore(paura).
Come pure talvolta per l’uomo “normale” che rovina sull’angoscia-angoscia.
Il ripetersi nell’immediatezza nel primo caso dell’emozione tristezza, nel secondo dello squilibrio fisico che si manifesta col dolore che alimenta la paura di non farcela e, nel terzo della situazione emotiva fondamentale dell’angoscia è dovuto dalla contemporaneità con cui i “qualcosa” che accadono («di più», «operare in senso contrario» e «in-avere [inibire]») si danno al soggetto.
È proprio nella contemporaneità dei “qualcosa” che accade qualche cosa che trattenendo in fase di reazione, nell’istante decisivo dovuto da uno sfondo situazionale e/o Fondo caratterizzante, fa riprovare l’identico “moto umano” che in prima istanza cercava di farci riposizionare presso il “sé stesso” facendolo vivercelo come il responsabile, finendo per farci allontanare dal sé per soggiornare presso il vuoto, il nulla.
Tristezza, dolore(paura) e angoscia sono “moti umani”, come anche altri, per così dire a tonalità negativa. Il ripetersi di queste manifestazioni “attive” nell’immediatezza del loro primo porsi, determinato dalla contemporaneità dei “qualcosa” che accadono («di più», «operare in senso contrario» e «in-avere [inibire]»), è a fondamento del darsi della depressione; ciò può essere sintetizzato in: depressione come fenomeno «ri-attivo».

Bibliografia

Giuseppe Ceparano & Giorgia Tisci(21 maggio 2011)

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