Lo stare in emodialisi per un paziente con IRC (insufficienza renale cronica) consiste nell’essere “attaccato” ad una macchina che per le sue caratteristiche fa da “rene artificiale”, in un centro adibito al trattamento, per un tempo di più o meno quattro ore, per almeno tre volte a settimana.
Questa persona con IRC ad un certo punto della vita si ritrova a fare i conti con una parte di sé, il rene, che non offre più il contributo necessario all’organismo per poter esistere; incombe l’indispensabile esigenza di trovare un sostituto a questo rene, un “rene sostitutivo”, che possa garantire l’esistenza all’organismo. Per poter garantire all’organismo di esistere si può ad oggi ricorrere o alla dialisi peritoneale, o al trapianto, o all’emodialisi; la possibilità delle tre o il passaggio tra queste è veicolata da una serie di fattori che vanno valutati e prospettati dal curante (il nefrologo) al curato (la persona-paziente con IRC).
L’universo degli emodializzati è costituito da giovani e anziani, da donne e uomini, da magri e grassi, da alti e bassi, da ricchi e poveri, insomma non è per niente discriminante. Il loro stare insieme è scandito dalla durata del singolo trattamento, dalla periodicità dei trattamenti e dal luogo entro cui recarsi per poterli eseguire; queste dimensioni temporali e spaziali li accomuna e li caratterizza.
L’incontro con le persone-pazienti con IRC in emodialisi avviene nello spazio e nel tempo dettato dal trattamento, che, a sua volta, è caratterizzato da un inizio, un “tra” e una fine, scandito in ogni singolo trattamento, nella serie dei trattamenti e nella fine del trattamento.
La costanza del luogo mette la persona-paziente con IRC in un rapporto di familiarità con lo stesso, permettendogli di sperimentare, mutare, sentire, mostrare i propri affetti, impulsi, emozioni, offrendoli a quanti sono lì nello stesso luogo, vuoi come con-divisori del trattamento che come esecutori, controllori e operatori del trattamento; non sorprendono, quindi, momenti di piacere-dispiacere che scandiscono la vita in generale e, allo stesso tempo, non debbono scandalizzare avversità e compiacenze, che sono spesso risonanze del clima che si crea, indotto sia dalle particolarità dei singoli che dal gruppo dei presenti nel luogo.
L’inizio dei trattamenti e del singolo trattamento è quello che meglio mostra il dramma esistenziale a cui queste persone-pazienti assistono impotenti: il catapultarsi in uno stato diverso, dove la dipendenza organica già da sempre insita nell’essere umano cede il posto alla dipendenza “elettro-idro-meccanica”, che non può non essere vista, quel doversi lasciar “attaccare”, quel cedere il passo; quel dolore invasivo degli aghi che pungono il corpo e, in altri casi, il fastidio persistente del catetere che all’attacco viene riaperto dalla medicazione e messo in vista, apre ad una sofferenza pervasiva; l’inizio segna sempre il fallimento dell’essere dimentichi di sè, quindi un non viversi il corpo ma un vivere il corpo. In questi momenti si rinnova il passaggio dall’essere persona all’essere paziente; l’esistenza dell’essere cede il passo all’organismo che deve esistere, deve ri-prendersi, deve ri-mettersi in primo piano, deve uscire per poter rientrare, come il sangue che attraversa la linea che lo porta al “rene artificiale” per poter tornare indietro ri-generato.
Il “tra” del trattamento e dei trattamenti, pone la persona-paziente in uno stato di parziale immobilità, una immobilità vissuta, una impossibilità concreta di potersi muovere ed esplorare, le uniche cose in vista sono gli “attacchi”, la macchina che si muove, gli operatori, gli altri emodializzati e in alcuni casi dei distrattori (tv, libri ecc.) utili a tentare di distogliere lo sguardo. Questo, è il momento in cui nell’immobilità del momento gridano silenziosamente attenzione, si guardano e si lasciano guardare, sono alla mercé dello sguardo impertinente che penetra le loro vite, sono presso loro stessi senza poter rifugiarsi altrove, ognuno con delle singolari modalità, non possono evitare di essere visti; corpi in vetrina, offerti alla visione, da quei corpi emerge tuonante la caducità dell’organismo vivente, che cerca di ri-prendersi; dai quei corpi a riposo, o meglio in ricarica, la persona ri-suona, tenta di riprendersi il posto del paziente qual è, vuole, esige, si sforza di muoversi, proiettando sugli altri che lo circondano tutto ciò che ri-suona dentro, sono vulnerabili, pure se, talvolta, si mostrano chiusi e non comunicativi, sono bersagli immobili delle proprie sofferenze. Respirano il clima del luogo in cui sono ospiti, offrono ossigeno a nuove atmosfere che cercano di creare che risentono del vissuto di impotenza che la mancanza di mobilità induce; quel corpo l’imprigiona in una situazione che non possono accettare, tentano, quando il proprio vissuto è abbastanza equilibrato, di adattarsi. Il loro dire, chiedere, è sempre amplificato; quel corpo fermo non può che dare maggiore enfasi, peso, alle parole. Sprofondano nell’attesa: “Essa ingloba tutto l’essere vivente, sospende la sua attività e lo immobilizza, angosciato, nell’attesa. L’attesa contiene in sé un fattore di arresto brutale che toglie il respiro. […] L’attesa primitiva è dunque sempre legata a un’intensa angoscia, è sempre un’attesa ansiosa. Ciò peraltro non può sorprendere poiché essa è una sospensione di quella attività che è la vita stessa. […] L’attesa si avvicina così al fenomeno del dolore sensoriale”(Minkowski, 1968: 83).
La fine, a cui facciamo riferimento, è quella della singola seduta di trattamento e dei trattamenti. Nel primo caso ciò avviene al termine della singola terapia, un momento di liberazione, lo “stacco” dalla macchina che ha fatto il suo lavoro, che ha tirato e restituito sangue, che restituisce al paziente la persona che da lì a poco lascierà quello spazio del centro di emodialisi per raggiungere la quotidianità del vivere, svuotato da quei liquidi in eccesso, da quelle sostanze accumulate che il rene non riesce a fare uscire; è il momento in cui dall’attesa si ri-torna all’attività. Il secondo caso è anch’esso un momento di liberazione, anche se può avvenire per due motivi: il passaggio ad un trattamento differente (il trapiano in primis) o la morte, entrambi segnano la fine di quel viversi la quotidianità con lo scandire dei turni di dialisi, è un ri-tornare alla vita in assenza del supporto elettro-idro-meccanico; fine quindi come fine dell’in-trattamento trattenente.
L’apparire di queste persone-pazienti in emodialisi, mettendo tra parentesi le singolarità che li caratterizza, liberi da pregiudizi e teorie precostituite, lascia scorgere un essere in preda all’atto di percepire con i sensi, quello che l’inizio ed ogni inzio apre, che il “tra” lascia manifestarsi attraverso l’attesa, che la fine ed ogni fine chiude, che lo spazio fisico del centro e lo spazio creato della familiarità contiene. Va oltre alla presa di coscienza razionale, è nel “sentimento di mancanza d’organo”.
Il disvelarsi del “sentimento di mancanza d’organo” è dato dalla duplice posizione in cui il soggetto si ritrova ad essere persona e paziente, nel viversi il corpo e vivere il corpo, nella piega aperta dall’attesa; si manifesta come intuizione simpatetica che emerge dall’intensa angoscia, che non lascia scampo, che non trova parole per essere detta ma vissuta in quanto tale. Parlare di “sentimento di mancanza d’organo” potrebbe far rintracciare delle similitudini con quanto accada nel lutto; quanto accade è si un lutto, una perdita di una parte di sé-corpo, che però non ha un accadimento una volta per tutte, ma si rinnova ad ogni inizio e trova risoluzione ad ogni fine, è un qualcosa da cui non si può sfuggire, che si deve inesorabilemente subire, con tutto ciò che comporta il viversi un sentimento. Parliamo d’organo proprio per meglio lasciar cogliere un qualcosa che c’è nel corpo ma di cui non si fa esperienza diretta, o meglio non è mai in vista; solo situazioni di mal funzionamento, di disfunzione, ci permettono di averne una qualche conoscenza della presenza nel corpo, ed è proprio per questo che parliamo di mancanza d’organo, proprio per lasciar intendere come in questa situazione, in emodialisi appunto, si fa esperienza di un qualcosa di cui ci si è accorti dell’esistenza per il malfunzionamento e di cui ci si deve fare esperienza ripetuta della mancanza in fase di trattamento.
Proprio il “sentimento di mancanza d’organo” diviene il fondo su cui si possono collocare fenomeni depressivi, talvolta mascherati, e che non possono non verificarsi, ed è proprio dalla consapevolezza del “sentimento di mancanza d’organo” che il curante deve poter guidare alla realizzazione di quel ponte nel “tra” della persona-paziente in emodialisi, tale da poter determinare adattamento, per giungere senza fretta alla fine, quale essa sia, perché ogni forma di accettazione in una tale situazione è disallontanameto dalla morte.

Bibliografia

Giuseppe Ceparano & Giorgia Tisci (31 maggio 2012)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *